VIII

«Le «Grazie»»

1. Composizione delle «Grazie»

La figura delle “Grazie” era piú volte apparsa nei versi giovanili del Foscolo in accordo con la mitologia edonistica del neoclassicismo settecentesco savioliano e bertoliano (e il Bertola andava famoso per un suo saggio sulla “grazia”).

Le «linde Grazie», le «Grazie morbide», le «bionde Grazie», le «tenere Grazie», delle Grazie «virginee bende», compaiono nel periodo dell’adolescenza come figurine piacevoli, fuggevoli simboli di quel sentimento del piacere delicato, della soavità del piacere

(Correte dove in danze atteggiano

le Grazie i morbidi piè delicati)

che nelle fantasticherie giovanili anticipano le figure delle Odi in cui esse vengono a rappresentare piú chiaramente una presenza di limpida eleganza intorno ad Adone morente o alla bella Antonietta a portare «balsamo beato», a rimproverare con uno sguardo mesto chi ricorda «la beltà fugace e il giorno dell’eterna pace». E nell’Ortis, nella nota pagina del laghetto e delle illusioni, le Grazie con la bellezza erano state invocate come divinità amabili e “consolatrici” sulle imperfezioni umane. Ma in quelle pagine esse erano soprattutto meta di una nostalgia per il mondo beato degli antichi «che trovavano il Bello e il vero carezzando le immagini della loro fantasia»: non dunque effettivamente presenti nel dramma romantico che si tradusse pienamente nell’Ortis e nei sonetti.

Poi nel Commento alla Chioma di Berenice erano riapparse nei frammenti di un antico inno alle Grazie con le loro chiome diversificate da quelle splendide del sublime Apollo, da quelle rosse di foco della guerriera Bellona, né ricciute come quelle di Amore o pallide e annodate sobriamente come quelle di Diana cacciatrice, ma tutte sparse e biondeggianti e soprattutto odorose di una fragranza «pari all’armonia che diede / d’Orfeo la lira...».

Ma dopo un primo accenno del 1808 in una lettera al Monti, è nel periodo fiorentino (momento di particolare dolcezza e di sollievo dopo le amarezze del periodo milanese con le sue polemiche, con i suoi rischi e sdegni politici) che il mito delle “Grazie” consolatrici si precisa e si nutre in una esperienza di vita rasserenata fra il conforto della grazia femminile (non piú solo bellezza, ma gentilezza, compassione, sensibilità, contenuta armonia vitale contrapposta allo spirito guerriero e rissoso brutalmente passionale degli uomini), la suggestione del paesaggio di Bellosguardo, della eleganza fiorentina (i lucidi teatri, l’ombrifero Pitti, la «vaga» Firenze), e quella piú precisa (ma tutta irrorata dei molteplici stimoli di tutto un ambiente risentito in una naturale disposizione dell’animo maturata attraverso conquiste e contrasti) dei capolavori artistici e specialmente delle sculture neoclassiche canoviane o dei quadri dell’«elegante artefice» Fabre. Simpatie ed amori (la Nencini, la donna gentile) e ricordi amorosi (la Cornelia Rossi Martinetti, la Maddalena Bignami, Francesca Giovio e persino l’Isabella Roncioni, rivista in quell’epoca nei salotti fiorentini) si confondono nell’anima vibrante e raddolcita del Foscolo con amicizie femminili (la contessa d’Albany con i ricordi dell’Alfieri risentito soprattutto nelle sue qualità umane, nelle sue discussioni sull’arte e sulla poesia con il Fabre, piú che nel suo accento di vate sdegnato) in un agio elegante che inutilmente l’esule tenterà di ricreare artificiosamente a costo di umiliazioni e di sterline male impiegate nel soggiorno inglese, quando ad una esperienza viva e naturale si sostituí una volontà disperata e nostalgica e una vera e propria compiacenza di esteta tradotte nel lusso neoclassico del “Digamma Cottage”.

Nel periodo fiorentino il Foscolo ebbe soprattutto un piú forte contatto con il neoclassicismo figurativo: nel giovanile Piano di studi aveva raccomandato a se stesso «meditazione sui capi d’opera», cognizioni della storia del Winckelmann e «osservazioni attentissime su Raffaello, Correggio e Tiziano [la triade raccomandata dai neoclassici] ed opere di Mengs», ma poi nella terza lettera dell’Ortis bolognese aveva rappresentato Jacopo in discussione con Odoardo, pittore neoclassico, a proposito del perfezionamento della natura nell’arte che al giovane romantico appare una bestemmia. Sicché poi, se nelle Odi e nei Sepolcri sono vivissime le suggestioni figurative di gusto neoclassico (ad esempio, Opere, Ed. Nazionale, VII, p. 72) nel Commento e poi nelle lezioni pavesi il Foscolo poté spargere sarcasmo sui pittori-dottori, sui teorici che agli esemplari sostituivano fredde e pedantesche teorie precettistiche. È nel periodo fiorentino che nell’amicizia del Fabre, nelle relazioni epistolari con il Cicognara e l’Albrizzi, l’interesse foscoliano per l’arte neoclassica si intensificò specie di fronte alla Venere del Canova, la cui descrizione nella lettera all’Albrizzi del 15 ottobre 1812[1] rivela bene quanto il Foscolo (come del resto la stessa Teotochi Albrizzi che nella sua descrizione della Venere-Paolina Bonaparte parlava di marmo che respira e per una danzatrice della illusione di un vero movimento) sentisse nelle statue canoviane (prestando ad esse piú di quanto effettivamente avevano) uno stimolo e un appoggio alla propria aspirazione ad una bellezza armoniosa, mobile e perfetta, pura e vitale. Per lui Canova «ardisce vestir di eterna giovinezza i marmi» e le varie statue canoviane (l’Ebe, le danzatrici, Amore e Psiche) furono riferimenti figurativi vagheggiati e stimolanti e lo stesso principio neoclassico della poesia che dà soggetti alle arti figurative e che da queste trae spunti per il suo creare si precisava per lui in una tensione costante ad una creatività della propria poesia, sdegnosa di una semplice sonorità («sdegno il verso che suona e che non crea»), bisognosa di figure, di immagini visive, mosse e animate da quell’elemento musicale che con uguale forza egli sentiva essenziale alla sua «armoniosa melodia pittrice».

Il contatto con le sculture canoviane, i ragionamenti con il Fabre (influsso reciproco fra poesia e arti figurative, compito della poesia di fornire soggetti alle arti figurative, ecc.) dové risospingere il Foscolo alle stesse teorie neoclassiche nella loro fonte piú autorevole e suggestiva (Winckelmann) e, come nel secondo abbozzo di dedica alla d’Albany si accetta il principio della “bellezza ideale” (ferma restando la diffidenza per i pittori-dottori e le teorie sostituite agli esemplari artistici), cosí si può costatare come nel mito centrale delle Grazie, in un accordo tutto personale con sentimenti maturati da tempo e attraverso un’esperienza insieme letteraria e vitale, si ritrovino i motivi piú suggestivi della teoria winckelmanniana della «grazia sublime e piacevole», oltre che i riflessi delle piú frivole discussioni settecentesche dall’Algarotti al Bertola (il “teorico della grazia”), alla Teotochi Albrizzi che nei suoi Ritratti (1807) aveva diffuso a piene mani questa qualità collegata nel preromanticismo neoclassico ad un’essenziale correzione della maestà e solennità del sublime, ad una disposizione gentile dell’animo bennato e ben educato di fronte al fascino del sublime preromantico.

A rileggere il saggio del Winckelmann Della grazia nei monumenti dell’arte (Opere, VI, p. 509) o le pagine sulla grazia nella Storia dell’arte (Opere, p. 74 e ss.) si sentirà come il Foscolo nel suo mito cosí originale e cosí pocop “libresco” utilizzava motivi circolanti nella letteratura del tempo e da lui raccolti nel loro maggior vigore nel testo fondamentale del gusto neoclassico.

La grazia è un dono del cielo, ma non come la bellezza, poiché il cielo ne dà soltanto l’indizio e la disposizione... Essa è lontana dallo sforzo e dal frizzo ricercato, ma ci vuole attenzione e diligenza per innalzare la natura al giusto grado di leggerezza in tutte quelle azioni, nelle quali essa deve mostrarsi secondo il talento di ognuno. Ella agisce soltanto nella semplicità e nella quiete dell’anima, il troppo fuoco e le passioni esagerate l’offuscano. Tutto quello che l’uomo fa, diviene pel suo mezzo grato e piacevole... Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interna. Sul volto di una Baccante non appare che l’aurora della voluttà. Nella tristezza e nello sdegno sono quelle figure una immagine del mare, il cui fondo è tranquillo, quando la superficie incomincia ad agitarsi... Le Grazie in Atene erano collocate all’ingresso dei luoghi piú sacri. I nostri artisti dovrebbero porle innanzi ai luoghi ne’ quali lavorano e portarle ne’ loro avelli, per averle continuamente presenti e far loro sacrifici per rendersele deità propizie (VI, pp. 509-516 passim).

Certo in Winckelmann l’effetto della grazia porta con sé qualcosa di mollemente settecentesco e riflessi di rococò confusi con lievi fermenti preromantici gessneriani («la gioia, come molle auretta che appena scuote le frondi, spandevasi leggermente sul viso», III, pp. 83-84), ma essenzialmente il legame esiste e conforta la costatazione dell’importanza che nella composizione delle Grazie ebbe il contatto con il neoclassicismo figurativo, che già aveva confortato un altro poeta, il Parini, ad un intimo e profondo svolgimento del suo animo e della sua poetica.

Nel Foscolo l’importanza di tale stimolo fu certo meno decisiva e piú ricca era la base di sentimento, di esperienze romantiche da cui si levò quest’ultimo altissimo canto sereno e consapevole e privo cosí di ogni rigidezza accademica come di ogni leziosità settecentesca.

Statue canoviane e dolci figure femminili si confondono nel vagheggiamento poetico del Foscolo e, quando da Milano il 31 dicembre 1813 in una lettera alla d’Albany il Foscolo rievocherà riunioni del suo salotto (quel periodo felice era già chiuso), nella fantasia tutto riapparirà in quell’aura di gentilezza e di soavità, in cui anche la sua passione per le donne si è come trasfigurata in contemplazione affettuosa:

Spesso con la fantasia mi trovo presente a’ suoi festini, e vedo danzare due dozzine di Grazie sorgenti intorno a lei; ma poi resto dolorosamente deluso. Ella domani avrà il piacere di far de’ regali alle danzatrici; ma io non avrò il piacere di osservare la riconoscenza e la gioia sul volto di quelle giovinette (VI, p. 548).

In quel mondo di vivi e coerenti stimoli (coerenti nella loro base di stile e di moda[2] e coerenti soprattutto nella disposizione sentimentale del Foscolo), il poeta vide veramente (con costanza e con profondità, con un accordo ben diverso da quello provvisorio della prima ode e della stessa ode milanese) popolarsi il suo mondo interiore di affetti gentili, di sentimenti di misura elegante, di «calore di fiamma lontana» e di figure perfette e sensibili, di “grazie” perfette come a lui sembravano le statue canoviane, sensibili e calde di vita come le giovani donne eleganti dei salotti fiorentini, su di uno sfondo di bellezza d’arte e di paesaggio da cui la sua fantasia e il suo vagheggiamento artistico potevano passare agevolmente al cielo di una Grecia fantasticata e ricordata, ad un cielo di miti la cui purezza aveva bisogno, per non essere frigida come nei primi frammenti del 1803, di una base sensibile, di una realtà propizia. Vede, al suo arrivo a Firenze, una giovane amata dal Niccolini e scrive alla Martinetti (agosto 1822, Epist., I, p. 417): «Era bella assai! ed avea la verginità sulle labbra e la verecondia del desiderio negli occhi; e la ho veduta ballar, e me ne ricorderò finché le Grazie accompagnate dalla Memoria vorranno venire a consolarmi nelle ore mie solitarie». E nella stessa lettera una Musa del Canova è presentata come un’immagine viva e affascinante:

... hanno presentato in quella sala il volto piú molle e piú candido di tutta l’Italia, e le chiome le piú graziosamente intrecciate, e una fronte un po’ alta forse, ma che ha del celeste, e un paio d’occhi verecondi ed arditi, e una bocca vergine sulla quale avrei sospirato appena, ma non avrei osato baciarla, e tutte queste belle cose in una sola testa! Ah s’io potessi pigliarmi confidenza!... e giurerei di non baciarla che sulla fronte; ma mi si raffredderebbero le labbra, perché la è una Musa scolpita da Canova e comprata dalla contessa per tener compagnia al ritratto del tragico.

E in una lettera del 27 settembre 1813 a Giovanni Serbelloni, in cui pure esalta i «bei colli» fiorentini (tutte le lettere di quest’epoca spirano una sorta di armonica soddisfazione ed anche quando ritornano i lamenti di qualche malattia sempre pronto è il contrasto confortante del mondo delizioso di paesaggio e di sentimenti in cui il Foscolo si sente vivere con piacere[3]), in un tono fra scherzoso e profondamente serio, facendo l’elogio dell’«ammirabile gioventú», consiglia e «scongiura» il giovane amico di «coltivare le Grazie, le Grazie vive e presenti, le Grazie a cui potete baciare la mano, e che, poco piú poco meno, sono tutte quasi clementi per chi le adora» (Opere, XII, p. 166). Donne e Grazie si confondono nella base piú umana del poema e non solo in una possibile equivalenza di mito elegante e galante, ma piú in profondo, come ci spiega un’altra frase della stessa lettera:

Le donne sono per lo piú migliori di noi, perché sono educate alla compassione ed al pudore assai piú di noi e sono create all’Amore, che quando è nobile e dolce, raddolcisce e nobilita tutti i sentimenti dell’uomo; fors’anche sono migliori amiche che amanti... Avrete amici forse; ma l’amicizia tra uomo e uomo ha un non so che di severo; e per quanto sia calda, non è per altro molto indulgente; ama piú di domandare che d’arrendersi...

Fra vita e poesia questo poeta cosí severo e sicuro del piano assoluto su cui nasce la poesia aveva però anche bisogno di un clima in cui la realtà si offrisse disposta alla trasfigurazione poetica. Cosí le Grazie, che sono il mito piú alto creato dal Foscolo (creato naturalmente in accordo con il suo tempo piú profondo e nel pieno di una tradizione letteraria, in una discussione di “poetica”), sono anche il volto di un aspetto della realtà umana, la femminilità, sentita nella sua dimensione sentimentale, piú nobile e coerente fra sentimento e bellezza, fra i termini neoclassici di buono e bello, di gentile e di civile.

Lo “Stimmung” del periodo fiorentino coincise con un momento di sollievo e di raddolcimento intimo e se le Grazie, come poi dirò, sono ben altro che un’evasione edonistica ed estetistica, e vivono di tutto il mondo profondo del Foscolo, si può sentire la forza di uno stacco da toni drammatici e dalla eloquenza impetuosa, dalle passioni piú ardenti, in un cerchio sentimentale di dimensioni eleganti, serene e rasserenatrici entro cui vengono poi a sgorgare sicuri ed omogenei, disacerbati ed aspiranti ad una nuova armonia, i motivi piú profondi del «sorriso e del sospiro», esclamazioni meste o limpide, fino al ripresentarsi del «passionato» contemporaneo, ma tutto privo dei suoi caratteri di urgenza volitiva e pratica, negli accenni all’Italia «afflitta da regali ire straniere», agli italiani morti in Russia, alla difesa di Eugenio Beauharnais sull’Elba.

Si intenda bene: nello stacco iniziale delle Grazie, in cui i fermenti dell’animo foscoliano maturati nella collaborazione sterniana e omerica vengono fruttando poeticamente, le suggestioni fiorentine, attraverso le quali il Foscolo si avvicinava di piú al neoclassicismo figurativo, coincisero con un momento di sollievo e di distacco dal mondo delle «cure» e delle passioni in un regno di bellezza, di eleganza, di fascino vitale ed artistico. Poteva diventare un pericolo: non lo diventò perché in questo cerchio nuovo di consolazione, di sollievo, di distacco, di perfezione estetica, venne ben presto e senza contrasto affiorando tutto il mondo serio e austero del Foscolo in questa nuova dimensione di luminosità, di armonia visiva e musicale mai disgiunta da una aspirazione e da una nostalgia per un’armonia sempre piú sicura.

Le Grazie non furono cosí una pura serie di compiaciuti bassorilievi ornamentali, né un inno lieto ed edonistico, ma la poesia intera dell’animo foscoliano, che attraverso la complessa spirale di uno svolgimento unitario e dialettico era giunto alla sua vera maturità, alla sua dimensione piú matura e piú difficilmente conquistata. E dunque non un molle adagiarsi poco virile dopo gli impeti eroici dei Sepolcri, ma una conquista di completezza e di dominio spirituale che trovò modo di tradursi poeticamente nel propizio calore di quella prima stagione fiorentina del 1812-1813. Calore propizio che si interruppe nella seconda metà del 1813 con il ritorno a Milano e il nuovo prevalere di preoccupazioni politiche piú urgenti ed esplicite. Il Foscolo non era riuscito a terminare il poema che aveva sperato di portare a compimento in quell’anno («prima che spiri quest’anno, avrete, ove altro non accadesse, il carme sulle Grazie diviso in tre inni. È finito ma non terminato, perché fino a che non siano stampati, io mi sento impacciatissimo dei miei scritti», scriveva al Grassi il 16 agosto 1813 da Milano, Epist., I, p. 493).

Le preoccupazioni della guerra, che pure dettero versi cosí alti alle Grazie, avevano portato nell’animo del poeta nuova ansia e turbato la pace apollinea della composizione.

Da quell’ansia e da quella tristezza per le sorti dell’Italia e per l’avvicinarsi della guerra e delle armi straniere poterono venir rinforzati gli accenti cosí alti e solenni con cui il Foscolo giudicò nelle Grazie la «strage fraterna», le guerre di conquista, il «delirio»[4] degli uomini «terrene ombre vaganti», e tanto piú alta poté divenire l’aspirazione tinta di consapevole mestizia verso una zona intatta (l’Atlantide del III inno) in cui la civiltà umana poteva davvero superare gli istinti atavici delle passioni brutali e turbatrici; ma nello stesso tempo preoccupazioni e dolori, nuovi impegni e decisioni pratiche venivano a turbare la calma della composizione e solo in momenti di eccezionale superamento delle condizioni esterne il Foscolo poté tra la fine del 1813 e il 1814 a Milano riprendere il suo poema.

In una lettera del 12 ottobre 1813 (in un breve ritorno a Firenze, Opere, XII, p. 289) si lamenta con il Pellico della difficoltà di lavorare perché «secca è la vena dell’usato ingegno» e perché la poesia non può sopire il tumulto della guerra; in un’altra lettera del 12 ottobre 1814 alla d’Albany accusando difficoltà materiali che lo distraggono insiste con accenti disperati alla sua volontà di terminare le Grazie (a cui dice di attendere «con tutte le forze, e in tutti i minuti, quando pur dovessi morire sotto il lavoro»), per le quali cerca di scaldare la sua fantasia con la lettura di Omero («da piú mesi non leggo se non Omero, Omero, Omero, e alle volte tre o quattro latini, e quattro italiani, tutti poeti»), ma insieme rivela il suo dramma di poeta preso fra le difficoltà di una ispirazione meno costante e agevolata da un’atmosfera propizia, e le esigenze di completezza di un disegno chiaro nelle sue linee essenziali, ma complicato nei suoi particolari piú minuti. Speranze e delusioni si alternano.

Nella lettera del 15 ottobre (Opere, VII, p. 75): «Sto per finire le Grazie; e quando il demonietto del verseggiare, che per ora se n’è ito improvvisamente di casa mia, tornerà a visitarmi e a farmi suonare l’armonia pittrice de’ versi, darò al poema l’ultima mano». Ma in quella del 13 novembre (Opere, VII, p. 81) indicava ancora la sua mancanza di ispirazione («ma si può sempre creare? e l’abbattimento di oggi non è forse inevitabile effetto degli sforzi di ieri?») e finalmente in quella del 15 novembre (ivi) ammetteva la fine sperata provvisoria di quello sforzo: «le Grazie fanno pur le ritrose, e vedo che dovrò contentarmi di ripigliarle a primavera».

Poi venne l’esilio e se anche il Foscolo tentò ancora di riprendere le Grazie egli sentí la difficoltà di finirle, di adeguare una ispirazione sempre piú saltuaria alle esigenze sempre piú minute e difficili del disegno nelle parti non finite, di risvegliare la sua immagine, di ricreare il clima in cui aveva iniziato e condotto cosí avanti il suo ultimo capolavoro.

Nel 1816, nelle lettere alla “Donna gentile” il Foscolo parla delle Grazie «già adulte», o «ragazzine» e che, «se avrò quiete e vita e un po’ di gioia nel cuore, diventeranno belle e divine vergini» (Opere, VII, p. 161).

Ma nel 1818 quella speranza è sostituita da un dubbio sempre piú forte («Stando nel 1814 a Milano, io avevo quasi finito il Carme delle Grazie in tre inni; ed erano riesciti oltre ogni mia speranza; ma non sono finite; né so se avrò quiete né vita da vederli stampati mai», Opere, VII, p. 341) e da speranze che si sentono sempre piú illusorie (al Pellico «forse potrò raggrupparle in pochi anni tanto da consolare poi la mia vita, ed avere tanta quiete d’animo ed ozio da vedere finite le Grazie, le care mie Grazie», Opere, VI, p. 365).

Nel 1822 poi pubblicò quella Dissertazione: Di un antico inno alle Grazie, che rappresenta una utilizzazione parziale del suo poema incompiuto, in frammenti (presentati come tradotti) adattabili alla descrizione del velo delle Grazie in relazione al gruppo scultorio canoviano compiuto nel 1814, nella descrizione della collezione di statue e marmi posseduti dal duca di Bedford (Outline engravings and descriptions of the Woburn Abbey marbles): tornava cosí al gusto iniziale del falso antico come nei frammenti del 1803.

I manoscritti delle Grazie incompiute rimasero in gran parte inediti fino alla manipolazione amorosa e falsificata dell’Orlandini (1848). Solo nel 1882 (Livorno, Vigo) il Chiarini ne dette una edizione critica riveduta nel 1890 e nel 1904 (Livorno, Giusti). Poi l’articolo del Barbi (L’edizione nazionale del Foscolo e le Grazie, in La nuova filologia ecc., Firenze 1938) venne a risollevare la questione e a porre le basi di una nuova edizione affidata al Pagliai e finora vanamente attesa.

Si può dire cosí che in assoluto è impossibile studiare le Grazie, non perché manca un testo che dia un poema completo che non c’è, ma perché manca una sicura sistemazione – e spesso si tratta anche di accorgimenti tipografici – delle varie stesure e delle varie fasi di elaborazione che permettano di studiare il processo formativo delle Grazie e i vari punti raggiunti dal poeta. Giustamente il Barbi nell’articolo citato, reagendo alla tesi dello Sterpa delle liriche autonome («non è giusto dire che è la poesia che si è ribellata e ha impedito di fare il poema: nessuno sa di che potesse essere capace la natura poetica del Foscolo se avesse avuto dalla vita condizioni piú favorevoli» – p. 168 – e «né perché non sia riuscito a compiere ciò che s’è via via proposto, dobbiamo sciogliere anche quel tanto che è legato» – p. 164), chiedeva un’edizione in cui «per quanto difficile possa riuscire il determinare e ordinare i vari tentativi fatti dal Foscolo per dar forma al suo carme, li si studi uno dopo l’altro, in tutti i loro particolari di concezione e d’esecuzione sin dove e manoscritti e testimonianze varie ci rendono possibile; e si dovrà poi cercare il mezzo migliore di rappresentarli nella stampa, per modo che si renda evidente tutto ciò che il poeta via via ideò, disegnò, fece e rifece nei diversi tempi, con sí lungo e amoroso travaglio» (p. 172).

2. Il mondo poetico delle «Grazie»

È dunque nel periodo fiorentino, nella larga azione di stimolo sentita dal suo animo bisognoso di armonia e di poesia (il primo ideale è naturalmente questo bisogno intimo tante volte affiorato parzialmente nell’opera foscoliana e già presente in parte nel lavoro omerico o nella vasta onda di malinconica armonia dell’Ajace), nella sollecitazione coerente al suo animo di quella compatta realtà di sentimenti gentili (fra amori e ricordi di amore, tenere amicizie, serenità di paesaggio fiorentino, vitalità morbida e nitida dell’arte neoclassica inverata per lui nelle statue canoviane vagheggiate come creature vive ed immortali), che il Foscolo riprese il motivo delle Grazie, che sino allora era stato solo un vago spunto laterale nella sua mitologia poetica.

E lo rese centrale e rappresentativo, capace di una larga raccolta di motivi poetici, mediatore della armonia sentita nella vita come qualcosa di superiore e di celeste, partecipatore agli uomini («terrene ombre vaganti», «nati al pianto e alla fatica», «nate a delirar menti mortali») di un complesso non solo di consolazioni e di illusioni vitali, ma piú profondamente di sentimenti effettivi, indiscutibili in quanto modo di sentire, di vivere, piú che semplici compensi o illusioni in pericolo di un riscontro con la realtà. Le Grazie «divinità intermedie fra il cielo e la terra» mediano, fanno scendere nel cuore degli uomini gli effetti dell’armonia che vive segreta nella discordanza delle cose del mondo e, quando l’irruenza brutale dell’amore-passione (egoismo, violenza, affermazione di sensualità) o piú l’irresistibile prepotenza della strage (naturale nell’uomo come istinto atavico, eredità insopprimibile della sua natura selvaggia) prevale sulla terra, vengono portate in un regno ideale, dove, rafforzate nell’animo da loro educato soprattutto nell’arte, ricreano dimensioni sicure e serene, salvano il germe stesso di una nuova vita piú civile ed umana, e a sua volta aspirante ad una meta sempre piú alta di serenità e di armonia. Il Foscolo dové sentire sul primo spunto nitido e ricco di quel mito la possibilità di concentrarvi i suoi motivi piú intimi. Il suo mondo interiore trovava unità in un entusiasmo meno impetuoso di quello da cui erano nati i Sepolcri, in un calore umano e poetico a cui il poeta aspirava da tempo e che finalmente si scopriva capace di accordarsi definitivamente con le ricerche stilistiche di quegli anni, con le posizioni programmatiche piú profonde elaborate dal Commento alla Chioma di Berenice in poi. In quella disposizione sentimentale di rasserenamento, il Foscolo ebbe un’intuizione unitaria del proprio animo poetico e della sua possibile espressione piú alta e continua.

Quando si parla dell’unità delle Grazie (e per il problema critico relativo rimando alla prima parte del Corso 1949-1950) si deve guardare appunto anzitutto all’unità dell’animo che in quelle si esprime. Non basta accettare l’evidente unità di “padre” o di generica ispirazione (come se si trattasse di un gruppo di liriche nate su di una certa ispirazione e poetica), ma si può accettare l’unità di una intenzione di disegno generale (nel particolare legame neoclassico di “unità e varietà”) e l’unità di un generale mito poetico sorto da una unitaria e decisa visione della vita e realizzato in una costante intonazione, con unità di linguaggio e con risultati poetici omogenei. Non si può chiedere naturalmente quella completezza che non esiste, ma se il poema (o meglio i tre inni) è incompiuto ciò non significa che esso sia nato frammentario su di una ispirazione diversa e “frammentaria”. Si tratta di un edificio di particolare struttura (si ricordi, ripeto, il principio di “unità e varietà” che comporta uno sviluppo meno dinamico e drammatico e un legame meno vistoso e tuttavia non una pura e semplice giustapposizione di pezzi nati diversamente) e costruito solo in parte, ma secondo un’ispirazione unitaria e un disegno generale e d’altra parte, se questo disegno mitico-allegorico poté allargarsi pericolosamente e cercare precisazioni minute a cui l’ispirazione sempre meno forte non fu piú adeguata, se il pericolo di una prevalenza intellettualistica (come nei tanti poemi incompiuti di Chénier) poté crescere come eccesso di un disegno generale prima in parte investito dall’ispirazione e pienamente mitizzato e reso poesia, non si può neppure fare un taglio fra alcune parti piú intense (parti piú intense e non perciò liriche autonome secondo la tesi dello Sterpa) e un elemento di struttura, intellettuale e volontario, didascalico e sopraggiunto. Sta di fatto che nelle parti portate a compimento, nelle parti dell’edificio costruite (e di cui noi possiamo avere un’idea generale appunto perché edificio incompiuto e non inorganico accumulo di elementi disparati), noi troviamo poesia anche fuori dei momenti piú intensi ed indicati come “liriche” in episodi e movimenti che da un punto di vista contenutistico si dovrebbero considerare strutturali e connettive, e che le stesse “liriche” ci si offrono in una lettura tanto piú sicura e giustificata, quanto sono sentite non solo nella generale atmosfera, in quella che il Flora chiama «aura delle Grazie», o «grazietà», ma proprio, sin dove ciò è possibile (ed è qui che una futura edizione critica potrà darci indicazioni essenziali), dentro le parti piú larghe di cui intensificano ed innalzano la generale poesia.

Sarebbe d’altronde sofistico e contrario a quanto lo stesso Foscolo disse circa la precarietà di simili tentativi e del loro eccesso[5] voler verificare minutamente e giustificare punto per punto nelle sue variazioni, aggiunte, perplessità il disegno mitico-allegorico che indubbiamente andò complicandosi esageratamente in relazione all’indebolirsi e al rarefarsi dell’ispirazione. E si noti che non sarebbe stato difficile per il Foscolo trovare una sistemazione strutturale soddisfacente se egli non avesse voluto per il suo capolavoro una piena presenza di poesia, una completa e intima mitizzazione, sicché, mentre il bisogno di precisazione minuta di passaggio e di simboli venne crescendo e mancò un’adeguata forza ispirativa, egli preferí lasciare incompiuto il poema piuttosto che stendere fra le parti realizzate parti puramente connettive e senza poesia.

Non si tratta dunque di un urto generale fra elemento intellettuale e poesia, ma semmai di un eccesso di esigenze strutturali e didascaliche cresciute quando mancò l’ispirazione, e l’intuizione generale ed unitaria venne complicandosi (il che si vede soprattutto dai sommari in prosa) fuori di una vera vita poetica. Va dunque costatata la condizione delle Grazie come opera incompiuta, ma non viva solo in sparsi ed autonomi frammenti, nati da una generica ispirazione comune, bensí viva, nelle sue parti realizzate, secondo un’ispirazione centrale, secondo motivi poetici unitari, secondo una poetica e su di una intuizione della vita coerente e originale.

E se il disegno mitico-allegorico venne complicandosi e non trovò la forza poetica che doveva dargli vita, si ricordi ancora che il centrale bisogno di una poesia come voce alta di una civiltà contro il lirismo sentimentale preromantico, contro il didascalismo ragionativo degli illuministi e contro l’ornamentale descrittivismo di tanti neoclassici, era indispensabile, nella condizione poetica foscoliana, a darci nella parte realizzata dell’edificio incompiuto una poesia cosí intensa e profonda, tutta viva in miti centralmente coerenti e non in descrizioni di paesaggio di figure isolate, in singoli risultati di impressioni altamente pittoresche. Naturalmente non mancano cadute di intensità anche nelle parti che possediamo compiute, e momenti meno impegnati, ma qui si vuole sottolineare non un’assurda perfezione di quanto possediamo delle Grazie (come non si vuole indicare una compiutezza che non esiste e ripeto una verificabilità assoluta del disegno mitico-allegorico in ogni suo passaggio e nelle sue intenzioni piú minute e complicate intellettualisticamente), quanto una generale unità d’ispirazione, di mito centrale, di poetica, di coerente intonazione nel risultato delle parti compiute.

Il mondo delle Grazie, pur nell’intensa aspirazione ad un superamento della realtà in un modo di sentirla rasserenato, non implica un molle ripiegamento dell’animo foscoliano, una facile evasione e un oblio di quanto il Foscolo aveva visto e sentito di tragico nella vita, ed anche quando nel «velo delle Grazie» tutti i sentimenti essenziali degli uomini vengono espressi nella loro dimensione di gentilezza e di armonia, l’ultima scena della tenerezza materna ricorda che la morte sarebbe provvidenziale al neonato liberandolo da un avvenire di dolori e sventure.

È sempre da questo punto di consapevolezza della sorte misera ed alta degli uomini che occorre entrare nel mondo soave e consolatore delle Grazie per non cedere qui all’impressione di una beatitudine insapore, di una evasione nell’iperuranio della poesia (già presentita invece consolatrice ed austera nel finale dei Sepolcri), nel regno delle belle forme, della eleganza a cui ci avrebbero preparato le due Odi.

Certo, quale cammino dal mondo agitato dell’Ortis a questo meraviglioso regno di soavità delle Grazie! E quanto arcaico e limitato ci appare da quest’altezza l’accenno alle Ninfe nell’Ortis, alla beatitudine dopo il bacio di Teresa! E come diversa d’altra parte questa serenità pensierosa, questo sguardo senza asprezza, ma con il riflesso profondo di un dramma incancellabile, dalla gioia esplosiva della prima ode e persino dalla rappresentazione dell’«aurea beltade» cosí piena e sensuosa pur nel suo sorriso tutt’altro che frivolo ed ingenuo. Gradazioni di momenti diversi.

Qui non si tratta di evasione o di elusione da un mondo drammatico, sibbene di un approfondimento dello stesso mondo e di uno sguardo nuovo che ne vede contemporaneamente (continuità in ciò con i Sepolcri dove però il chiaroscuro era tanto piú forte e dilatato dall’impeto lirico-eloquente) l’occasione di sorriso e di sospiro ma con un tale distacco consapevole e non indifferente che «sospiro e sorriso» portano da un animo senza disperazione e senza abbandono a facile gioia, in un «calore di fiamma lontana» sia per il piacere sia per il dolore. Si tratta dunque di una ulteriore e suprema conquista dell’animo e della poesia foscoliana in accordo con le tendenze piú intime di un gusto e di un tempo di romanticismo neoclassico, appoggiate ad una esperienza ricca di vita, risolta in una particolare condizione propizia.

Come si presenta la vita all’occhio di questo ultimo Foscolo?

Attraverso il velo delle Grazie (in cui alla fine del poema egli riprospetterà i quadri essenziali della vita), «nel calore di fiamma lontana» tutta la vita dei sentimenti si ripresenta non diminuita o artificiosamente resa poetica, ma irrorata di una soavità che è effetto di superiore dominio, di intima possibilità di contemplazione e di meditazione senza urgenza e senza impeto. Il «chiaroscuro» (v. Dissertazione, p. 421) notato nei Sepolcri, l’ondeggiamento fra gioia e mestizia, nelle Grazie ha assunto un valore piú intimo e piú universale, come la «dosatura» di «mirabile» e «passionato» è diventa piú sicura e costante.

Non tanto compresenza energica di vita e morte, di necessità e libertà, esaltata grandiosamente nel finale dei Sepolcri, quanto unico tono di misura e di armonia nel piacere e nel dolore, nel gemito e nella gioia. E quando si dice misura non si pensi ad un’«aurea mediocrità» oraziana e neppure alla superiore tranquillità pariniana («Orecchio ama placato...») che certamente è nella tradizione neoclassica italiana l’antecedente piú sentito dal Foscolo: è la misura di un uomo che sa sentire insieme «dissonanza» e «armonia» e che da questa compresenza trae ancora armonia. Non si tratta di un beato rifugio o di un accomodamento con la vita, di un passo indietro, insomma, ma di una conquista sentita come tale dal poeta, e carica di un’aspirazione infinita a divenire sempre piú sicura ed alta.

«L’armonia dell’universo, di cui gli uomini tutti hanno un sentimento secreto, benché non possa esprimersi, è diffusa anche nella vita dell’uomo», dice il Foscolo nei frammenti della Ragion poetica delle «Grazie», e questa armonia è appunto il sentimento diffuso nel cuore dell’uomo dalle Grazie che, «secondo il sistema poetico dell’autore, sono deità intermedie fra il cielo e la terra, e ricevono dai Numi tutti que’ doni che esse vanno poi dispensando a’ mortali» (p. 319). Ecco quanto Venere dice loro quando le lascia sulla terra:

All’infelice

terra ed a’ figli suoi voi rimanete

confortatrici; sol per voi sovr’essa

ogni lor dono pioveranno i Numi.

E se vindici fien piú che clementi,

anzi al trono del padre io di mia mano

guiderovvi a placarlo. Al partir mio

tale udirete un’armonia dall’alto

che diffusa da voi farà piú miti

de’ viventi i dolori. Ospizio amico

talor sienvi gli Elisi; e sorridete

a’ vitali che cogliean puri l’alloro,

ed a’ prenci indulgenti, ed alle pie

giovani madri che a straniero latte

non concedean gl’infanti, e alle donzelle

che occulto amor trasse innocenti al rogo,

e a’ giovinetti per la patria estinti...

(I, vv. 278, e ss.)[6]

La terra è infelice, i dolori dei viventi sono l’oggetto primo delle Grazie che devono confortarli, renderli piú “miti”, e il sorriso delle Grazie deve confortare soprattutto gli umani già “inclini” ai sentimenti fondamentali: compassione, pietà, liberalità, pudore e amor puro, amor di patria, eroismo generoso e sfortunato (termini essenziali che torneranno nei quadri del velo).

A questa umanità superiore sentita soprattutto nella dimensione di una purezza affascinante, la giovinezza, il Foscolo offre – sulla costatazione quasi pacifica e sacra della fatale presenza del dolore (quante esclamazioni dolenti che salgono da una profondità piú che personale, come dalla coscienza dolorosa dell’umanità, da un suo pensoso ricordarsi di una verità che sempre fermenta anche sotto le scene piú incantevoli, i movimenti piú puri della gioia) – una possibilità di paradiso mondano, di Elisio, dentro l’animo stesso, ed a cui l’animo infinitamente aspira: appunto quell’armonia che è prima suscitata dalla natura-bellezza (Venere) e che le Grazie (precisabili anche come beltà, ingegno, virtú, ma vive soprattutto come disposizione all’armonia) vanno spirando ai mortali:

E da quel giorno

dolce ei sentian per l’anima un incanto

lucido in mente ogni pensiero, e quanto

udian essi o vedean vago e diverso

dilettava i lor occhi, e ad imitarlo

prendean industri e divenia piú bello.

(I, vv. 331 e ss.)

Armonia che è quella stessa che costituisce l’essenza dell’universo,

sí che le cose dissonanti insieme

rendan concento d’armonia divina

e innalzino le menti oltre la terra.

(II, vv. 118 e ss.)

La visione della vita non ha perso il suo fondo essenziale, e poeticamente provvidenziale, di una costatazione pessimistica

(o nati al pianto

e alla fatica! – II, vv. 87-88),

valida sempre in tutta la sua forza e capace di limitare una superba volontà umana di giungere facilmente alla bellezza celeste (il finale dell’episodio di Tiresia che proprio nell’aggiunta finale perde la finità accademica del 1803 e vive nella grande aria delle Grazie:

la divina ira di Palla

al cacciator col cenno onnipossente

avvinse i lumi di perpetua notte.

Tal decreto è dei fati. Ahi senza pianto

l’uomo non mira la beltà celeste!),

ma il conforto, il ristoro, affiorato parzialmente nell’ode All’amica risanata, assicurato nella severa ed entusiastica rapsodia dei Sepolcri soprattutto al mondo degli eroi e dei prodi, qui si sparge con piú sicurezza e centralità su tutti i mortali toccati dalla virtú delle Grazie. È quello che risulta dal suono dell’arpista che esprime

gioia insieme e pietà, poi che sonanti

rimembran come il ciel l’uomo concesse

al diletto e agli affanni, onde gli sia

librato e vasto di sua vita il volo,

e come alla virtú guidi il dolore

e il sorriso e il sospiro errin sul labbro

delle Grazie e a chi son fauste e presenti

dolce in cuore ei s’allegri e dolce gema.

(II, vv. 62 e ss.)

L’uomo (superato l’ardore delle passioni, l’impeto smodato del piacere, tradotto in gemito il ferino ululato della disperazione scomposta, dell’angoscia che lo condurrebbe al suicidio) vive di queste celesti illusioni assicurate come effettivo modo di vivere, come consolazione intima e inalienabile, che implica ed unifica le consolazioni parziali della bellezza e della femminilità della «corrispondenza di amorosi sensi», della religione dei sepolcri e della patria, degli eroi e della poesia che le evoca eterne, come presuppone presente la base della propria necessità, il dolore naturale degli uomini.

Né si può dire che il disgusto per le guerre di conquista (e ancora una volta il Foscolo esprimeva nella sua alta coscienza un motivo profondo del suo tempo proprio all’epoca delle ultime disastrose campagne napoleoniche e delle invasioni degli alleati) e in genere per la guerra, per la «fraterna strage», conduca ad un semplice rifiuto della realtà, ad una evasione pura e semplice nel mondo dell’arte. Quando nell’ultimo inno, in occasione delle guerre di conquista, Minerva, la dea delle arti liberali, della civiltà, si prepara a lasciare la terra insanguinata insieme alle Grazie, stimola però i re ed i popoli aggrediti a difendere la patria, li aiuta con la lancia paterna, e quando nell’Atlantide, terra misteriosa e paradisiaca a cui gli uomini aspirano senza poterla con le loro sole forze raggiungere (esempio di una vita beata e termine di una aspirazione e di una nostalgia esse stesse a lor modo nobilitanti), le dee minori tessono il velo che dovrà proteggere le Grazie pur lasciandole nude, cioè ugualmente efficaci, è evidente che in quell’isola beata e sotto quel velo protettivo si prepara nel cuore degli uomini, soprattutto mediante il valore catartico della poesia e dell’arte, una piú sicura armonia, una resistenza alle passioni brutali e selvagge, la base di una civiltà piú umana e piú salda. Nel loro velo protettivo le Grazie torneranno fra gli uomini e li ispireranno a superare l’amore-passione (e si capisce che in tal senso l’amore-passione brutale è l’esponente di ogni avidità egoistica, di ogni incontrollato desiderio preoccupato solo della propria soddisfazione) ed il selvaggio istinto della «rissa» e della strage che il Foscolo presenta come una triste eredità dell’umanità primitiva (non fatta di «buoni selvaggi» o di creature cacciate dall’Eden, ma di cannibali e di feroci cacciatori pronti alla rissa sulla preda comune):

Ah tali

forse eran tutti i primi avi dell’uomo!

Quindi in noi serpe miseri un natio

delirar di battaglie, e se pietose

nol placano le Dee, spesso riarde

ostentando trofeo l’ossa fraterne.

Ch’io non le veggia almeno or che in Italia

fra le messi biancheggiano insepolte!

(I, vv. 143 e ss.)

Tutto ciò che mette in pericolo nel cuore stesso dell’uomo la serenità, la compostezza, la misura, il superiore equilibrio ispirato dalle Grazie, provoca un’aspirazione a condizioni sempre piú sicure, ad una armonia sempre piú alta di cui è simbolo e meta di tensione[7] la terra misteriosa di Atlantide (sogno che supera romanticamente la nostalgia per una Grecia terra di perfezione, mito altissimo ed originale di questo grande poeta del romanticismo neoclassico), dove

casti i balli,

quivi son puri i canti, e senza brina

i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno

sempre, e stellate e limpide le notti.

La visione della realtà in generale e propria della situazione storica dell’Italia «afflitta da regali ire straniere» non provocava sdegni eloquenti ed esortazioni appassionate, ma stimolava il desiderio di una civiltà superiore, di un’umanità piú alta, di anime purificate attraverso il valore catartico della poesia (voce di questa umanità e di questa aspirazione e nella sua essenza voce di perfezione, voce delle Grazie e dell’armonia) e capaci di resistere all’urto delle passioni turbatrici, di superarle senza sfuggirle in un arcadico idillio, di trasformarle in quei sentimenti di «grazia» che il Foscolo fece vivere poeticamente nei quadri del velo delle Grazie.

3. La poetica delle «Grazie»

Questo mondo intimo ed unitario (aspirazione, conquista e ancora aspirazione di armonia e di interiore civiltà lieta e pensosa che vince e domina – non ignora dannosamente e stoltamente – il mondo del dolore e della fatica, degli istinti atavici di brutale passione e di rissa, sforzo interiore e spirituale, appoggiato e illuminato dalle Grazie attraverso il valore catartico dell’arte) fu espresso dal Foscolo, nel suo poema incompiuto, in una poesia e con una poetica ben distinte anche se collegate intimamente con la poesia e la poetica degli anni precedenti. E si osservi subito come la distinzione dai Sepolcri (minor gusto di contrasto, di impeto, di figure drammatiche, di effetti persuasivi ed eccitati, intonazione piú costante ed armonica, umile e ricca, passaggi piú meditati, linguaggio sacro, ma piú affettuosamente pio e limpido, piú morbido e trasparente, con tutta una tecnica piú minuta e allusiva, evocatrice piú di linee musicali che non di energiche figure, diretto piú a scaldare gradatamente che ad eccitare, piú a suggerire che a magnificare) non tolga una comune radice: poesia alta, lirica sacra, unione di mirabile e passionato e posizione di distacco della propria poesia italo-greca dalle posizioni contemporanee. Certo minor turgore di entusiasmo e di eloquenza, minor volontà di vaticinio esortativo (il vate oracolare diviene un sacerdote pietoso e sereno che pare riassumere in sé gli atteggiamenti piú affettuosi di Cassandra, di Tecmessa, di Ricciarda, di Calcante), eliminazione della polemica e dello sdegno satirico, degli impeti eloquenti, ma insieme una continuità sicura (oltre che in certi toni dei Sepolcri e specialmente nell’ultimo tempo) nella centrale volontà di poesia sacra, di lirica di valore universale nel suo accento personalissimo.

Non occorrerà che fare un breve cenno alla posizione polemica implicita nella poetica delle Grazie, come già in quella del Commento: polemica espressa in alcuni accenni discreti all’Italia che piú non onora le Grazie e la poesia di origine greca, e in una grandiosa e confusa rappresentazione dell’Iperborea Erinni, mostruosa figurazione della mitologia nordica e della poesia romantica (contro cui come «audace scuola boreal» si leverà la fiacca eloquenza del Sermone sulla mitologia del Monti) – una pagina davvero insolita delle Grazie e pur carica di una suggestione e di un effetto assai piú sottile ed acuto dei quadri polemici dei Sepolcri.

Posizione polemica ribadita nel Gazzettino del bel mondo e collegata al disprezzo per una poesia ornamentale (i verseggiatori neoclassici) e “inesperta”, e al distacco da una poesia descrittiva e prosastica, contro cui si propone una poesia fedele agli esemplari greci, all’esempio greco di poesia-religione, di creatività mitica, nell’accordo di «passionato» e «mirabile» greco. Contro il descrittivismo, come contro l’ornamentale uso dei miti[8], difesi invece nella loro vitale possibilità di linguaggio poetico e di unico linguaggio comune a poeti ed artisti (non c’era altro stile figurativo che quello neoclassico e ciò incoraggiava il Foscolo all’uso di quella mitologia, unica base di linguaggio per gli artisti), il Foscolo invocava l’essenziale scambio rinforzante di suggestioni fra artisti e poeti («quasi tutti i concetti che il genio creativo della poesia porge alle belle arti rifluiscono a guida di nuove e piú facili sorgenti d’ispirazione dalle opere degli artisti alle menti dei poeti», Opere, XI, p. 417), punto essenziale per la poetica delle Grazie il cui primo principio è, insieme a quello di «unità e varietà», quello di una evidenza e di un movimento pittorico e musicale: «melodia pittrice» (ma «arcana» e «armoniosa»). Donde derivava contro la poesia descrittiva il vanto di aver presentato figure e gruppi non “descritti”, ma che «Flora disegna ella medesima e li colorisce ammaestrata da Erato, e pare, mentre noi stiamo ascoltando il canto delle Muse, che quelle figure l’una dopo l’altra sorgano e si muovano innanzi agli occhi nostri» (Dissertazione, XII, p. 429).

Volontà di evidenza, di movimento, di colore e musica congiunti per espressione dello stesso motivo poetico fattosi principio di poetica: l’armonia che si presenta nella complessa definizione-direzione di «arcana armoniosa melodia pittrice».

Per l’armonia, bisognosa nel suo carattere, arcano, profondo, di un patetico e intimo chiaroscuro (in cui si confonde secondo le parole della Dissertazione esigenza morale ed esigenza estetica[9]), occorreva l’unità e varietà («senza disunione di parti non hai armonia né chiaroscuro: senza unione l’armonia riesce confusa; il primo difetto genera la noia, l’altro confonde il lettore, quindi la varietà della vera poesia lirica che è il sommo dell’arte» XII, p. 313); per l’armonia occorreva il sapiente uso di delicati passaggi, di un linguaggio mediato e continuo in cui l’attenzione del poeta scende sino alle particelle che «danno i toni e i semitoni come nella musica; ed aiutano la scrittura a quel chiaroscuro che è tanto piú grato quanto le minime tinte che lo distinguono spiccano meno» (Epistolario, I, p. 426, 27 agosto 1812); per l’armonia si invoca la unione di «naturale e meraviglioso», di «mirabile e passionato», attenuati e fusi; per l’armonia si chiede l’ausilio stimolante della pittura e della musica.

La poesia, infatti, ha quanto la pittura bisogno di rappresentazioni particolari (donde la ricerca attenta di una precisione e di una aderenza sottilissima), ma come la musica ha il privilegio di «servirsi di materie che il tempo e le circostanze hanno quasi immensamente disgiunte fra loro» (Opere, XII, p. 313) e che «desta in un momento cento incanti nell’anima».

Evidenza, pittura particolareggiante, musica che tutto lega e porta nella armonia il suo spirito piú arcano.

Ed è evidente che questo battere sulla musica come correttivo dei pericoli della “pittura” costituisce l’elemento piú romantico e piú nuovo dentro la ripresa di canoni neoclassici di tranquilla e completa rappresentazione, di unità e varietà, di evidenza sensibile e perfetta. La musica rappresenta l’esigenza di piú intima tensione in un mondo di rappresentazioni altrimenti perfette, ma immobili, l’esigenza di una vibrazione intima, di un linguaggio piú segreto che «dal noto, deve farti passare all’ignoto cui tende, facendolo sospettare» (Opere, XII, p. 313).

Cosí il principio della poesia lirica che deve «magnificare le passioni», con entusiasmo e con magnifica unione di mirabile e passionato parlando un linguaggio alto e sacro, si arricchiva in teoria e in concreto di punti nuovi: fusione di evidenza pittorica e tensione musicale, non eloquente, chiaroscuro tenue e senza rilievo di forte contrasto, trascolorare di meraviglioso e naturale, un rappresentare che vuole insieme suggerire e “dipingere” ed esprimere dal profondo con il linguaggio arcano della musica.

Il neoclassicismo aveva chiesto evidenza, gesto statuario e perfetto, il romanticismo chiedeva musica, espressione profonda dell’anima nei suoi strati piú misteriosi, la poetica delle Grazie univa pittura e musica, univa il succo piú profondo delle due culture poetiche non in una esperienza generica, ma in un concreto linguaggio luminoso e patetico, morbido e perfetto, «fluido e pervio», limpido e vibrante di echi profondi.

4. I tre inni

Di un primo tentativo di comporre le Grazie in un solo inno si può dire che la sua conclusione sarebbe stata piú facile, il suo ambito piú angusto, anche se i motivi piú caratteristici dell’intuizione centrale vi erano già presenti intorno al potere rasserenante dell’armonia mediata delle Grazie, a cui il poeta si rivolgeva con piú facile continuità di invocazione e di accordo con il colloquio con il Canova, invocato prima come ispiratore dell’inno mediante la sua Venere fiorentina, invitato alla fine a farsi ispirare dalle Grazie onorate a Bellosguardo e a renderle immortali nella viva incarnazione delle tre sacerdotesse.

Il rito delle Grazie dominava l’inno e la scena fiorentina coerentemente alla trasfigurazione di una realtà cosí propizia era piú dominante di fronte alla breve presenza dell’antica Grecia in cui si svolgeva rapidamente la storia piú breve della apparizione delle Grazie. Si può dire che, se il Foscolo avesse chiuso a quel punto di ampiezza il suo inno, noi avremmo avuto un componimento nitido e armonico, ricco di alta poesia, ma di limitato respiro, con una prevalenza del rito sacro-galante e dell’atmosfera piú soave ed artistica («è tutta poesia applicata alle belle arti», scriveva il Foscolo all’Albrizzi nel 1812), a scapito di una risonanza poetica piú profonda, di una complessità di motivi che arricchiscono il valore delle Grazie come canto dell’animo foscoliano intero e profondo.

Ma l’intuizione iniziale e fondamentale (poesia dell’armonia, creazione di un mito, corrispondente all’aspirazione di un rasserenamento dei propri affetti e di tutto un modo di sentire piú umano e gentile, soprattutto nella catarsi artistica) si allargò e si arricchí e nella nuova concezione in tre inni si aprí tutta una nuova possibilità di piú vaste proporzioni: scene, paesaggi (che stavano cosí a cuore al Foscolo, come abbiamo visto nelle versioni omeriche), figurazioni mitiche di sentimenti fondamentali, e piú sicura presenza del «passionato», tutto mediato nel «mirabile», nel velo continuo del mito e dell’armonia rasserenante. E ne nasceva se non un crescendo drammatico, cosí alieno dalla poetica foscoliana di questo periodo, certo un largo movimento di temi e di toni dentro la comune intonazione fondamentale.

Cosí il primo inno a Venere («ha piú dello storico», dirà il Foscolo, «e illumina l’antichissima Grecia»[10]) ci porta dalla collina di Bellosguardo a scene vaste e varie dell’antica Grecia, fra il mare Ionio, la selvaggia Laconia, la scena di una civiltà primitiva illuminata dalle Grazie (e quale ricchezza e profondità di gradazioni di paesaggi e di sfondi storici di fronte alla leziosa Grecia del gusto settecentesco!) e poi di nuovo in Italia. Mentre nel secondo («è piú pittoresco e drammatico, e la scena è nell’Italia de’ giorni nostri, e nello stato possibile futuro dell’incivilimento maggiore dell’Italia»[11], dopo la scena di Firenze e nel vagare della fantasia intorno alle tre sacerdotesse, o alle ricreazioni artistiche della poesia di grandi scrittori italiani (da Boiardo e Berni a Tasso, a Dante, a Petrarca e Boccaccio), il passaggio a Milano e alla reggia porta i mirabili quadri della pianura lombarda con la scena dell’offerta del cigno e della preghiera della viceregina per il ritorno del marito in battaglia sull’Elba. E nel terzo («il piú metafisico perché attende piú di proposito al potere delle arti sulle umane passioni, e ci trasporta in un paese ideale») la scena dell’Atlantide fa da sfondo ai quadri vari e coerenti del velo delle Grazie.

E certamente, se la intonazione fondamentale di armonia corrisponde ad un sentimento fondamentale di rasserenamento e di aspirazione ad una serenità piú sicura, quanta varietà di sentimenti e quanti echi di elegia e di dramma vibrano nella continuità cosí morbida e luminosa del linguaggio delle Grazie, quale capacità di risonanza profonda, di chiaroscuro nitido e suggestivo in quel tono costante di pensosa serenità, in cui all’impeto di una drammaticità e di un’eloquenza piú urgenti si sono sostituiti una intensità piú pacata, un calore meno eccitante e piú continuo. Né questa continuità di un tono fondamentale su cui si rilevano, senza contrasti bruschi ed impeti, temi e movimenti diversi, ha mai quell’uniformità troppo ugualmente cadenzata ed uniforme di tanta letteratura neoclassica dalla Feroniade del Monti all’Imagination del Delille.

Cosí nel primo inno (e ci serviamo di questo brevissimo cenno sui tre inni per indicare in pochissimi esempi le qualità e i risultati della poesia del capolavoro incompiuto), dopo l’invocazione alle Grazie e l’invito al Canova all’ideale tempio di Bellosguardo, la storia delle Grazie portate sulla terra da Venere si apre fra la limpida e nostalgica invocazione-evocazione di Zacinto e l’animarsi del mare greco popolato di oceanine Nereidi attratte dalla presenza di Venere e delle Grazie. E nella continuità piú sicura di quest’inno (malgrado alcune lacune il piú realizzato e compiuto) proprio questa scena dell’apparizione delle Grazie e dell’accorrere delle Nereidi può essere portata come esempio caratteristico della «melodia pittrice» in una zona media, di fronte alla quale si potranno indicare momenti piú profondi e complessi, ma non certo eterogenei, e sviluppati entro le linee essenziali di questo linguaggio.

Splendea tutto quel mar quando sostenne

su la conchiglia assise e vezzeggiate

dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto,

quante alla prima prima aura di Zefiro

le frotte delle vaghe api prorompono,

e piú e piú succedenti invide ronzano

a far lunghi di sé aerei grappoli,

van alïando su’ nettarei calici

e del mèle futuro in cor s’allegrano,

tante a fior dell’immensa onda raggiante

ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude

le amorose Nereidi oceanine;

e a drappelli agilissime seguendo

la Gioia alata degli Dei foriera,

gittavan perle, dell’ingenue Grazie

il bacio le Nereidi sospirando.

(I, vv. 66-81)

È un movimento che utilizza un paragone ripreso dalla poesia omerica[12], già rinnovato nella versione foscoliana, e può indicare bene come anche in questa zona meno profonda e ricca di echi intimi piú impegnativi, in questa poesia di movimenti agili, di immagini fluenti e limpide, non si tratti di semplice poesia descrittiva e come un elemento di «arcana» suggestione (il sospiro delle Nereidi che aspirano al bacio delle Grazie) non manchi mai a rendere piú intima la «melodia pittrice» e a dare al fondamentale tono dell’armonia (base e meta di un sentimento tutt’altro che mediocre e facile) una sua particolare tensione. Ma certo qui domina soprattutto il motivo d’un movimento luminoso e armonico, espressione della gioiosa coscienza dei primi effetti delle Grazie (o, come dice il Foscolo, della nascita di «gentili fantasie» «dall’immaginazione ingentilita e rallegrata»), il ritmo guidato idealmente dalla figura della «Gioia alata», agile e denso, fluido e luminoso con un accento di letizia piú aperta e dolce (anche se corretta nelle sue punte piú pericolose, ma ancor presente anche in qualche accenno aggraziato – «vezzeggiato»[13]), che sarà superato – pur nella stessa direzione poetica e sul coerente sviluppo del fondamentale motivo dell’armonia attinto ed espresso con diverse gradazioni di intensità – in altri momenti piú intimamente ricchi.

Una minuta analisi, che qui non è possibile fare, mostrerebbe la perfezione raggiunta dal Foscolo nell’attuazione della «melodia pittrice», nella cura di visione mobile e musicale (e si accenni almeno al mirabile svolgersi del movimento delle oceanine Nereidi piú morbido e sensuoso di agili figure da quello piú vago delle api tutto pieno di sottili effetti, movimento rumoroso e ronzante con gruppi consonantici lievemente piú rumorosi – le frotte delle vaghi api prorompono – e incontri vocalici aperti e spaziosi che uniti ai primi esprimono quel volo e quell’indugiare «alïante» sui fiori); ma, come dicevo, al di là di questa prova cosí abile e tutt’altro che esteriore, dentro una zona media, il Foscolo porta la sua poesia a risultati piú profondi, come può indicarci il bellissimo brano della «vergine romita».

Dopo l’apparizione nel mare greco, le Grazie hanno prove piú difficili nell’incontro con i selvaggi di Citera e della Laconia, e la poesia dell’armonia si arricchisce attraverso le scene meno serene della Grecia preistorica, delle risse dei selvaggi cacciatori e dei cannibali, correggendo con toni piú scuri, ma non foschi ed estremi, quanto vi poteva essere di troppo facile splendore, di trionfale nella esaltazione dell’opera di civilizzazione operata dalle Grazie.

Anche avvii di movimenti che sembrano da lontano riprendere movimenti dei Sepolcri («Non prieghi d’inni o danze d’imenei, / ma di veltri perpetuo l’ululato / tutta l’isola udia, e un suon di dardi / e gli uomini sul vinto orso rissosi...»), mentre hanno un’uguale intima solennità, sono però ben diversi per il tono sempre misurato e placato, per la mancanza di forte stacco o di incisivo contrasto, per la continuità dello svolgimento non fortemente dinamico, ma sempre mediato come nel passaggio fra la rappresentazione della feroce esistenza dei primi uomini, il gesto modesto di protezione con cui Venere protegge sotto il suo manto le «gementi» Grazie, il comando alla selva di scomparire attuato senza sorpresa (l’incontro voluto di naturale e meraviglioso) e l’esclamazione dolente prolungata e attenuata e poi ancora risolta in un lungo sospiro finale (I, 132-150).

Tutto si svolge su di un piano piú costante, in un’aura di mito, in cui dalle scene della Grecia selvaggia e dal «chiaroscuro» fra Grazie e selvaggi si può passare agevolmente all’opera di civilizzazione delle Grazie in Laconia, i miti di Amore spodestato da Imeneo, al viaggio delle Grazie fino all’Olimpo dove Venere lascia la terra e si accomiata dalle sue ministre che poi alla fine dell’inno, dopo l’invenzione delle arti, saranno invitate dal poeta a passare in Italia.

È in questa parte (quando già il motivo della armonia e della grazia si è arricchito attraverso le scene dei selvaggi e della loro civilizzazione) che possiamo leggere il brano lirico della «vergine romita» in cui la poesia delle Grazie trova uno dei momenti piú profondi e originali.

Entro la luminosità di questa “ascensione” pagana, nella delicata sentimentalità di questo addio delle meste vergini con gli occhi velati di pianto, alle quali Venere dà l’ordine di sorridere «fauste e presenti» agli umani puri e pietosi, l’armonia che scende sul mondo acquista una profondità segreta mentre il brano della «vergine romita» vive tanto piú giustificato se letto entro questo movimento piú ampio.

Come nel chiostro vergine romita,

se gli azzurri del cielo, e la splendente

Luna, e il silenzio delle stelle adora,

sente il Nume, ed al cembalo s’asside,

e dei piè e delle dita e dell’errante

estro e degli occhi vigili alle note

sollecita il suo cembalo ispirata,

ma se improvvise rimembranze Amore

in cor le manda, scorrono piú lente

sovra i tasti le dita, e d’improvviso

quella soave melodia che posa

secreta ne’ vocali alvei del legno,

flebile e lenta all’aure s’aggira;

cosí l’alta armonia che...

discorreva da’ Cieli...

Una sorprendente modernità colpisce anzitutto in questo “notturno” cosí romantico e cosí classicamente composto, e cosí aderente dall’intimo a quella disposizione spirituale dell’armonia delle Grazie che qui si esprime in ogni sua gradazione, dal sentimento di una nostalgia amorosa a quello della ispirazione, a quello del conforto armonioso della quiete solitaria e del cielo tranquillo notturno, a quello della armonia stessa che si fa voce di tutto ciò che nell’anima si è deposto di piú segreto e si risveglia senza tumulto e senza fremito e pure cosí intenso.

Venere nel suo alzarsi al cielo aveva provocato l’Armonia che «giubilando l’etere commosse».

Che quando Citerea torna a’ beati

cori, Armonia su per le vie stellate

move plauso alla Dea pel cui favore

temprò un dí l’universo...

Ed ecco che il muoversi, lo scendere dell’armonia per i cieli verso la terra è paragonato e fatto effettivamente vivere poeticamente nell’armonia piú segreta, piú riposta che sale da un cembalo, quando una fanciulla solitaria in un chiostro, durante una notte lunare serena, commossa dal silenzio religioso, si pone a suonare con attenzione ispirata e ad un tratto, inattesi e invincibili, ma soavi e tali da rapirla in un’estasi piú profonda, affiorano nel suo cuore, sollecitati dalla musica, ricordi amorosi; e allora le dita indugiano e da esse sgorga la melodia piú intima e segreta che corrisponde al suo sentimento piú profondo e involontario.

Altissima poesia e altissima traduzione di questo senso dell’armonia che affiora come la voce piú segreta della vita nel cuore dell’uomo ispirato dai propri sentimenti piú intimi nella sollecitazione catartica, purificatrice dell’arte.

Si noti la straordinaria finezza di analisi sentimentale e la straordinaria forza di suggestione-espressione, il linguaggio musicale, la mirabile capacità dello svolgimento dall’esterno all’interno, dal cielo sereno e notturno e dall’aura di solitudine casta alla breve azione dell’assidersi al cembalo (anch’essa cosí composta e lieve), al movimento piú rapido del suono volontario e sollecitato dall’attenzione molteplice di tutta la persona «ispirata» e, attraverso questo movimento piú animato e piú esterno e pur già cosí tenue e limpido (non una parola pesante, o troppo energica, nulla piú della delicata tensione racchiusa nel «sollecita» cosí attutito e spirituale), al movimento meno impulsivo, a questa armonia che «flebile e lenta all’aure s’aggira...». Il solito spengersi dei movimenti delle Grazie (il finale ad esempio del volo della danzatrice) qui ha raggiunto un risultato massimo e indicativo per tutta la poesia del poema: eco sottile e pure consistente, impalpabile e compiutamente espressa.

Nel secondo inno (quello che dové procurare al Foscolo le maggiori difficoltà di esecuzione, specie nella seconda parte, su di un disegno sempre piú vasto e minuto, per le preoccupazioni piú narrative e didascaliche di presentare gli effetti delle Grazie sulla civiltà italiana del Rinascimento) la parte piú legata ed intensa è certamente l’ultima in cui, nella scena di una Lombardia rappresentata poeticamente con il suo paesaggio ricco di pascoli «di mille pioppe aeree al sussurro», si celebra il rito della terza sacerdotessa (la Bignami, sacerdotessa della danza) e l’offerta del candido cigno («che veleggia con pure ali di neve») da parte della viceregina di Milano per il ritorno del marito dalla guerra con la finale rappresentazione della danzatrice.

Nelle prime due parti dell’inno, la poesia aveva avuto momenti piú intensi (specie nella prima parte piú continua, la bellissima scena notturna di Urania e Galileo, la lunga rappresentazione della suonatrice con il paragone fra la musica alta e l’alba sul Lario e l’offerta dei fiori) e momenti piú blandi ed eleganti, specie nella seconda parte molto lacunosa e piuttosto dispersiva nella lunga storia delle Grazie nella poesia e nell’arte italiana e nelle caratteristiche dei poeti italiani (Boiardo, Berni, Tasso, Dante, Petrarca, Boccaccio) (e pur qui non mancano nel tessuto sempre nobile seppur meno intenso movimenti piú sicuri e poetici, come l’inizio di alto, sereno idillio dell’episodio del Boccaccio o il brano cosí suggestivo ed originale del fuoco di Vesta[14]); ma in quest’ultima parte la poesia fluisce continua dal rito del cigno alla bellissima preghiera della viceregina per il marito in guerra:

Tutto il cielo t’udia quando al marito

guerreggiante a impedir l’Elba ai nemici

pregavi lenta l’invisibil Parca

che accompagna gli eroi, vaticinando

l’inno funereo e l’alto avello e l’armi

piú terse e giunti alla quadriga i bianchi

destrieri eterni a correre l’Eliso.

(II, vv. 542 e ss.)

Grandi versi ispirati alla tenera pietà dell’amore coniugale (sentimento fondamentale fra quelli ispirati dalle Grazie) e a quel senso alto della sventura e della morte, privo di ogni drammaticità, che qui, in questa serena marcia funebre dentro il velo di una preghiera deprecativa, trova nuovi accenti mesti e limpidi che possono indicare proprio su questo tema cosí fondamentale l’originalità e la novità della poesia delle Grazie, come – anche nell’utilizzazione del brano dell’Ajace per Eugenio combattente sull’Elba in difesa delle terre invase dai Russi – originale è la posizione decisa del poeta che se nei Sepolcri esaltò sopra tutte le glorie quella «piú modesta e piú santa» di Ettore, ma non mancò di eternare con Omero anche i fatati Pelidi, qui risolutamente fa che le Grazie sdegnino «chi a’ fasti di fortuna applaude» e «sol fan bello il lauro /quando Sventura ne corona i prenci».

E questo alto canto del gentile amore coniugale e dell’eroismo sfortunato e pio perché in difesa e non in offesa si risolve nella rappresentazione della danzatrice, movimento tanto piú notevole se calcolato in funzione di conclusione e di soluzione della parte precedente piú che solamente come alto esercizio di quella abilissima «melodia pittrice» che il Foscolo invoca ancor qui per questa esaltazione della bellezza e dell’arte ispirate dalle Grazie.

Spesso per l’altre età, se l’idioma

d’Italia correrà puro a’ nepoti,

(è vostro, e voi, deh! lo serbate o Grazie!)

tento ritrar ne’ versi miei la sacra

danzatrice, men bella allor che siede,

men di te bella, o gentil sonatrice,

men amabil di te quando favelli,

o nutrice dell’api. Ma se danza,

vedila! tutta l’armonia del suono

scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso

della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo

manda agli sguardi venustà improvvisa.

E chi pinger la può? Mentre a ritrarla

pongo industre lo sguardo, ecco m’elude,

e le carole che lente disegna

affretta rapidissima, e s’invola

sorvolando sui fiori; appena veggio

il vel fuggente biancheggiar fra’ mirti.

(II, vv. 578-595).

Prima un’introduzione allargata e sollevata dalla invocazione in parentesi e indugiante su ripetizioni («men bella», ecc.). Poi improvvisamente (con quella forma di improvviso senza “urto brusco”, in cui l’energia si scarica lentamente in tutto il movimento successivo) una premessa condizionale («ma se danza») e un imperativo sdrucciolo agilissimo aprono il movimento di danza, di visione mobile, il movimento dell’armonia (essenziale motivo centrale e presente ovunque nel poema) che dal suono passa le scosse nel corpo, nel sorriso, nei suoi minimi gesti. Battute rapide e brevi («un moto, un atto, un vezzo») e poi un verso distensivo. Ma di nuovo una mossa piú rapida e integrativa, che introduce il movimento piú affascinante: prima lento, poi piú accelerato («ecco m’elude»), poi un movimento rallentato e morbido («e le carole che lente disegna») che si accelera e si alleggerisce («sorvolando sui fiori») in una immagine vaga e senza peso, fuggevole come le immagini piú belle di questo poema dell’armonia e della aspirazione all’armonia che non manca mai di un sospiro, di una nostalgia per cose tanto piú labili quanto piú di suprema bellezza.

E si noti quante volte l’andamento termina (e coerentemente al ritmo essenziale delle Grazie) in un dileguare agile, in un errare sospiroso e che è simbolo concreto di questa aspirazione che sente il continuo spostarsi di piani dei propri sogni di serenità, il continuo presentarsi e sfuggire di queste figure aeree e celesti.

La capacità espressiva del verso foscoliano è diventata sempre piú sottile ed intera sia in questa direzione di visioni mobili e musicali sia in quella di una rappresentazione piú intima di sentimenti, e pare che l’ispirazione delle Grazie abbia concesso al poeta quanto egli prevede per tutte le arti dalla influenza delle Grazie velate: «coll’ingenuo riso / dolce un decoro piaccia alla tela, / nitido il verso suonerà al poeta, / se voi l’udrete; e allo scultore / che veste molle giovinezza il marmo / docilissimo scorrere scalpello» (III, vv. 223-228). Movimenti, minimi gesti e rilievi, lievi impulsi e rallentamenti, echi di suoni, sfumature di sentimenti vengono espressi e suggeriti nel loro fondo piú segreto e nel loro legame costante ad un centrale motivo poetico (mai semplice poesia di sensazione e di impressione), al canto dell’armonia a cui l’animo foscoliano rasserenato e consapevole aspira attraverso la poesia purificatrice delle passioni, ma sensibilissima a cogliere ed esprimere le piú sottili vibrazioni sentimentali.

Ma le qualità piú alte dell’«arcana armoniosa melodia pittrice» si trovano fuse interamente nell’inno terzo, nel grandioso episodio dell’Atlantide e del velo delle Grazie.

Tutto l’episodio della terza parte è di grande poesia, dall’indicazione dell’Atlantide divenuta regno di Pallade e inaccessibile agli umani, al lavoro di tessitura del velo, fino alla cerimonia in cui Pallade avvolge del velo le Grazie, ma sul grande e necessario avvio dei versi 101-119 (in cui la nobiltà spirituale del Foscolo ha trovato accenti senza uguali nell’indicare con alta, distaccata condanna l’orrore delle guerre di conquista e l’incompatibilità fra la libertà e le guerre falsamente condotte in suo nome), nel salire dalla visione della terra coperta di stragi al cielo di Pallade perfetto e immacolato[15], la parte piú intensa ed esemplare è il canto di Erato e i quadri che in esso si presentano.

Il canto di Erato, reso piú affascinante dalla presenza di Psiche che nel cuore ripete il suo casto lamento sull’esperienza dolorosa dell’amore-passione, si svolge in una perfetta sequenza di strofe legate dall’iniziale sollecitazione alla tessitrice Flora, in una realizzazione esemplare di quel principio di unità e varietà tanto presente al Foscolo delle Grazie, ben lontano anche qui da un semplice procedimento di piatta giustapposizione e d’altra parte lontano dal crescendo drammatico dei Sepolcri. I quadri uniti nel canto da un ritmo essenziale, tanto piú sicuro ed intimo quanto meno costretto in forme di strofe chiuse e tradizionali, si presentano insieme mobili e conclusi, visivi e musicali, privi di ogni freddezza di accademico bassorilievo e pure finiti e disegnati senza nulla di approssimativo e di incerto. E non per caso nel primo e nell’ultimo si trovano accenni alla morte e alla caducità e all’infelicità umana adatti a racchiudere in un velo di mestizia rasserenata e in una affermazione definitiva di una visione serena e insieme sempre sostanzialmente pessimistica la rappresentazione dei sentimenti fondamentali della vita illuminata dalle Grazie e resa gentile e profondamente civile nella purificazione estrema dell’arte.

Nella prima strofa del canto[16], essenziale per il movimento impresso a tutta la serie, si muove a passo di danza la Giovinezza «ardita», ricca di speranze: e i suoni aperti delle vocali accentate collaborano con le parole piene ed essenziali: balli, canti, coro, speranze, a creare un’immagine mossa e lieta presentata in piena luce; ma subito con un tenue chiaroscuro (l’accompagnamento incalzante del Tempo con i suoi suoni piú cupi e sommessi, con l’allitterazione insistente delle «t», con la suggestione della vecchiaia e dell’antichità: l’antica lira) l’immaginazione stessa si fa piú intensa e trascolora nello stesso movimento affascinante, in toni malinconici, allusivi di una fugacità connessa indissolubilmente con la stessa danza lieta della giovinezza che nel suo procedere non può che discendere la china fatale della vita. Mito poetico altissimo, traduzione poetica di un sentimento che ha occupato l’animo di tanti poeti del primo Ottocento dal Pindemonte al Leopardi, «lieta e pensosa» come Silvia e Nerina, fiduciosa come la Clarina pindemontiana, fugace come la Gioia di Keats, «whose hand is ever on his lips bidding adieu». Poi il tono malinconico si accentua pur dentro l’immagine soave e consolatrice dei fiori che le Grazie «destano» (gesto di miracolosa leggerezza, espressione di quegli impeti di meraviglioso e naturale che il Foscolo tanto cercava in questa poesia mitica, in questo linguaggio senza peso e senza sforzo), il movimento si fa sospiroso e nostalgico nel giro piú elegiaco («quando il biondo crin t’abbandoni e perderai il tuo nome»), nell’invocazione alla giovinezza ormai presentita nella sua tenera morte e pur soavemente consolata dal profumo duraturo di quei fiori-ricordi nell’ultimo verso tutto rilevato dal prevalere delle «r», dal loro suono piú gracile e duro, dall’immagine dell’urna funerea che è sí l’urna in cui si spegne la giovinezza, ma è insieme allusione sepolcrale piú vasta, accentuazione di malinconia e di sospiro. Sorriso e sospiro, canti di gioia smodata e gemito disperato (per la fine della giovinezza e per l’avvicinarsi della morte[17]), coscienza del dramma umano e modo di sentirlo con pensosa serenità e con la consolazione di ricordi incantevoli: tutta la vita è rivista qui nei suoi termini essenziali di gioia e dolore intorno alla figura della giovinezza sentita in un animo «raggentilito» non come possibilità di sfrenato godimento[18] ma di confidente letizia, come l’epoca delle speranze che si trasformeranno poi in rimembranze consolatrici.

Nel secondo quadro l’amore coniugale «verecondo» (le fila della tessitura sono perciò «nivee», candide come la fede che deve unire gli sposi ,come di questa fede sono facile simbolo le «tortorelle» e della cerimonia nuziale è simbolo la stella Espero) viene ad animare una scena delicata e suggestiva, ma certamente inferiore alla prima e, nella sua trama sensibilissima di musica sommessa e minuta, non priva di qualche pericolo di grazia molle, di tenerezza e di raffinatezza insieme. Ma, in questo limite tanto piú grave nell’astratta composizione della scena e tanto diminuito nella precisa esecuzione della mano ferma e sicura del grande artista, si osservi anche qui la estrema capacità di un tenue e sereno idillio serale tradotto in movimenti piú teneri e minuti, con brevi pause fra di loro e risolti nel verso finale che assolve, nella fuga della tortora vereconda, la funzione essenziale di uno sciogliersi del quadro, di uno spengersi del ritmo in un movimento e in un’immagine risolutiva e fuggevole.

Nell’atmosfera sacra e naturale del bosco di mirti (sacri a Venere) e della radura escono errando (movimento sempre come raddolcito anche nel suono dal molle gerundio) le tortorelle, in una lieve aura di mistero notturno ed amoroso, in un tenue giuoco di echi e di rime interne (errando / mormorando), in un sottile rabesco di suoni preziosi (coerente al giuoco di luce ed ombra) e di parole eleganti e rare («mirteo bosco»).

Alla scena amorosa si aggiunge il canto dell’usignolo che si apre («e poi canta imenei») dopo la preparazione del verso sesto tutto involto in una coerente aria di solitudine e di silenzio (occulto, silenzioso) e costruito con arte sottilissima sulla prevalenza delle «l», sul loro suono piú morbido dopo quello piú prezioso e pur vicino delle «r»[19]. Poi il verso finale in cui il motivo della verecondia e il movimento caratteristico di questi finali si risolvono insieme in una delicatissima immagine mobile e limpida.

Il sentimento virile e gentile della pietà filiale e della compassione verso i vinti e i sofferenti anima il terzo quadro, in cui il Foscolo svolge con sobria potenza un motivo complesso e fondamentale che non si può ridurre al solo tema della «pietà filiale» (come pur fece il poeta quando parlò del velo nella Dissertazione del 1822); nel sogno del guerriero e nel suo sguardo ai prigionieri si svolge una complessa vita di affetti, caratteristica per il fondo sentimentale di tutto il canto. Il sogno veritiero dell’alba (ma si noti l’importanza poetica di questa lieve figura mitica e dell’accenno all’alba nella scena essenziale del quadro: e l’alba fa chiaroscuro con il crepuscolo serale del quadro precedente) manda nella mente del guerriero le immagini dei genitori che pregano per la sua salvezza e per il suo ritorno (e cosí la pietà filiale nasce dall’immagine propizia di una scena di pietà dei genitori, pietà piú aperta e senilmente tenera: «lagrime e voti») e dalla pietà del figlio per i «miseri genitori» nasce una commozione che lo sveglia e lo induce a guardare i suoi prigionieri e a sospirare per una mescolanza di sentimenti la cui punta piú alta è quella diretta ai prigionieri stessi, alla loro sorte infelice che potrebbe essere anche la sua sorte e che, come rende «miseri» i loro genitori, renderebbe «miseri» i suoi, già lacrimosi nell’incertezza della sua condizione. Una intima e complessa catena di affetti si svolge nel breve quadro e culmina nel finale: «guarda e sospira». Lo sguardo sui prigionieri (e si noti come nella scena le figure sono composte in una linea che va dal Sogno al guerriero e da questo ai prigionieri con un movimento interno progressivo che evoca figure e sentimenti) è carico di nostalgia, di compassione, di apprensione per la propria sorte, di pietà per i genitori propri e per quelli dei prigionieri e il sospiro, proprio nascendo cosí umanamente da tanti sentimenti legati al «sentir proprio», si indirizza soprattutto pietoso e virile ai vinti e ai loro genitori che vivono effettivamente il dramma della prigionia.

È soprattutto nel finale («e quei si desta...») cosí lieve, silenzioso e sicuro nel gesto e nel suono che si accentua la poesia preparata nella prima parte e si risolve in uno di quei movimenti finali sostenuti e sospirosi che sono caratteristici delle Grazie e che qui ricorrono alla fine delle strofe costituendone il punto piú alto in una specie di cadenza omogenea, come omogeneo è l’inizio lievemente esortativo ed incitante di ogni strofa («mesci...»). Come nel terzo quadro al brutale rapporto fra vincitori e vinto si sostituisce il sentimento di pietà verso il vinto e il lauro onora la gloria solo del guerriero pietoso, cosí nel quarto l’ospitalità è cantata con un presupposto contrasto con i rapporti umani ostili e spietati, maligni e invidiosi, con il disprezzo per gli esuli che era stato drammatico motivo ortisiano.

Mesci, o Flora gentile! oro alle fila;

e il destro lembo istoriato esulti

d’un festante convito; il Genio in volta

prime coroni agli esuli le tazze.

Or libera è la gioia, ilare il biasmo,

e candida è la lode. A parte siede

bello il Silenzio arguto in viso e accenna

che non fuggano i motti oltre le soglie.

Tutto il quadro è animato da un moto di letizia, di confidenza eletta fino ad accenti espliciti e pieni: «esulti» di un «festante» convito. E tutte le immagini e le parole in cui si traducono sono piene, sicure e pure senza nulla di rumoroso e di eccessivo, come il movimento del genio ospitale che onora gli esuli è cosí limpido e sicuro in un verso che risuona lieve e compatto, specie nelle parola finale («prime coroni agli esuli le tazze»).

L’accenno agli esuli porta con sé un’eco di mestizia e, dopo l’espressione sicura della particolare confidenza e serenità del convito (cosí limpida, composta ed agile nel fluire elegante e sicuro dei tre membretti che la compongono, di uguale struttura: un aggettivo sdrucciolo e il sostantivo piano), nell’ultima parte – sempre la piú suggestiva e sottile – una figura nitida ed allusiva conclude il quadro con un gesto di levità quasi ariostesca e un verso al solito lieve e fuggevole.

Ma certamente l’ultimo quadro[20] è quello che piú si avvicina all’intensità del primo e lo stesso Foscolo nel darne un sunto esplicativo nella Dissertazione («Una giovine madre seduta alla culla del suo primo nato, temendo non quei gemiti siano pronostico di vicina morte, chiama al cielo con tutta la importunità delle preghiere e delle lagrime. Oh quanto è felice quella tenera madre che non sa! dice Erato a Flora: ella non conosce che ai fanciulli è la morte un beneficio e che i loro pianti sono luttuosi presagi dei travagli e delle pene a cui l’uomo è nato») ne estende il significato profondo e generale e lo indica come significativo per il fondo di rasserenato, ma ineliminato pessimismo che vive in tutto il canto e in tutte le Grazie. «Le immagini e la morale del gruppo mentovato per ultimo danno un’idea abbastanza esatta degli altri». Nell’atmosfera di silenzio e di solitudine notturna (e le «cerulee» fila sono in simpatia con questa atmosfera, misteriosa e suggestiva) la figura della giovane madre che alimenta una lampada sulla culla con una cura soave ed attenta è un’altra di queste figure consolatrici e gentili e il suo pianto si espande melodioso e suggestivo (specie nell’ultimo verso) in quell’incontro tenue e limpido di accenni agli inizi della vita ed al suo epilogo, tragico. Vagiti di infanti, presagi di morte, pianti della giovane madre si fondono in un’espressione melodiosa e allusiva che (dopo quei versi cosí limpidamente fluidi nell’esprimere quella cura, quell’errore pietoso che si svolge in un pianto, anche nel giro elegantissimo e lento della costruzione: «e teme non i vagiti...» che poi si svolge in una forma piú aperta e pure trattenuta dall’impostazione negativa: «non mandan...») trova un approfondimento maggiore negli ultimi tre versi: la scena della tenerezza materna acquista un significato piú vasto e generale e, sul verso cosí melodioso che concludeva la rappresentazione di quella preoccupazione gentile e ingenuamente, soavemente disperata, si appoggia l’esclamazione «beata!», espressione di una coscienza superiore, consapevole e mesta, che definisce poeticamente felicità quell’ingenua ignoranza, provvidenziale ai fanciulli la morte e la vita una dolorosa vicenda di pene.

Culla e morte, vagiti e presagi, infanti e sonno eterno: ancora un chiaroscuro essenziale in quella armonia limpida che vuol tradurre le passioni in sentimenti gentili, che vuol rendere duraturo «il ristoro» delle illusioni mediante un modo di sentire rasserenato e purificato nell’esercizio e nell’efficacia dell’arte, ma senza con ciò perdere la virile coscienza della situazione umana in una estasi edonistica o in una mediocre saggezza indifferente.

Cosí i sentimenti fondamentali degli uomini e del poeta (che rivedrà ancora attraverso questo velo disacerbante la sua vicenda personale e il suo amore nell’ultimo bellissimo brano di chiusura dedicato alla Bignami; III, vv. 253-fine) hanno trovato la loro piú alta espressione poetica in questa zona piú profonda e piú pura, dopo che nella catarsi artistica l’animo ha vinto, piú che le esterne condizioni di un mondo sconvolto e imbarbarito dalle «fraterne stragi», i propri istinti, le proprie passioni turbatrici, ed ha conquistato una possibilità di vera civiltà che non è mai un facile possesso né un semplice effetto di distacco indifferente, ma uno sforzo spirituale e una considerazione piú serena, non meno intensa di tutta la vita.

Senza giungere piú ad un’esortazione, mantenendosi in un perfetto equilibrio tutto poetico, il Foscolo delle Grazie era giunto ad indicare (proprio in un momento storico importantissimo: il crollo della dittatura napoleonica, la restaurazione e il formarsi di nuove direzioni rivoluzionarie) una ideale cittadella di animo superiore, la volontà e la possibilità di una umanità e di una civiltà senza superbe pretese, consapevole di leggi della realtà e di limiti, ma tale che accettandoli con dignità e pietà, con il superamento delle passioni brutali e soprattutto dell’istinto di preda e di rissa, nel valore supremo dell’arte veniva a costituire dimensioni effettivamente nuove e superiori, a vivere l’armonia riscoperta nelle dissonanze stesse della realtà.

E, se si deve accentuare contro una interpretazione delle Grazie come momento di evasione e di rifiuto della realtà l’esistenza e la vita in esse di un importante mondo spirituale che nella romantica aspirazione ad un regno di serenità e di armonia implica effettivi sentimenti di superiore umanità, di intima civiltà libera e fraterna (e alcuni di questi sentimenti come lo sdegno per ogni guerra di conquista e l’accurata distinzione fra guerra di offesa e di difesa vissero effettivamente nel generoso Risorgimento italiano), bisogna d’altra parte ben sentire come questo mondo spirituale, questa aspirazione ad una civiltà illuminata dall’arte, sia tutto tradotto in poesia e viva per opera della poesia che «vince di mille secoli il silenzio», ma che piú ancora è la voce essenziale e la condizione stessa di questo superiore incivilimento umano. Aspirazione tradotta in concreta poesia, in miti poetici: ciò che dà al Foscolo una netta superiorità rispetto ai verseggiatori neoclassici descrittivi e didascalici e a tanti “vati” romantici incapaci di fissare in nuovi ed autentici miti (come invece faranno Leopardi, Vigny, Shelley, Hölderlin) le loro aspirazioni, la loro tensione spirituale. Egli aveva saputo rappresentare il suo mondo interiore, aveva saputo raggiungere, pur nell’incompiutezza del suo capolavoro, l’ideale poesia cui si era venuto preparando da tempo e attraverso un cosí complesso lavoro letterario e poetico, attraverso un assiduo calcolo di poetica, un instancabile colloquio con la tradizione e con il proprio tempo, in una continua assimilazione di esperienze vitali e storiche vissute profondamente e riviste coerentemente su di un piano artistico.

Se un ideale di poeta può essere quello di chi vive ed esprime nella sua poesia i sentimenti piú vivi, la coscienza piú profonda del proprio tempo e insieme, in questi sentimenti rivissuti e personalmente trasformati, motivi umani duraturi e legati al nucleo piú profondo della nostra umanità (sempre congiunta storicamente, ma sempre capace di riconoscersi in ogni tempo e luogo), si può dire che il Foscolo realizzò tale ideale e che la sua voce originalissima rappresenta insieme in una realtà inseparabile l’espressione piú alta del nostro romanticismo neoclassico ed un valore poetico in sé assoluto ed universale.


1 «Mi lusinga del Paradiso anche da questa valle di lagrime» (Lettere all’Albrizzi, p. 95).

2 Si ricordi che il neoclassicismo è stato l’ultimo “stile” veramente dominante senza contrasti per un lungo periodo e capace di una moda duratura e accettata con convinzione.

3 A Michele Araldi scriveva nel 1812 (Epist., I, p. 431): «Ed intanto mi sto con Erato, con Melpomene, con Talia e con tutti gli amabili geni delle belle arti, e nella piú amabile città dell’Italia: “né del mondo mi cal, né di fortuna...”».

4 «Le nate a vaneggiar menti mortali» dell’ode milanese diventano «le nate a delirar menti mortali» proprio perché il giudizio sulle passioni brutali e soprattutto sull’istinto di guerra e di preda (e si noti come la coscienza foscoliana fosse ancora qui storicamente accordata con motivi profondi del suo tempo, con la nausea di guerra e di stragi tipica dell’ultimo periodo napoleonico) si è fatto piú sicuro e limpidamente severo.

5 Il Foscolo nella Dissertazione mostrò bene di voler reagire al pericolo non solo di una poesia ragionativa nettamente rifiutata concretamente alla sua poetica e alla sua pratica di poesia (e si nomina Pope come quel poeta didascalico che avrebbe potuto «col mezzo di bella verseggiatura scolpire profondamente nella nostra memoria» gli effetti delle Grazie, ma «il nostro cuore rimarrebbe freddo e la fantasia dormente», Opere, XII, p. 431), ma anche quello di un allegorismo troppo minuto e avvertiva spiegando alcuni miti. «Molte altre peculiarità di questa specie potrebbero essere segnalate, ma a voler dichiararle si darebbe in erronee congetture e di piú sarebbe inutile impresa...» (Opere, XII, p. 430). E circa le idee «metafisiche» (riflesso della terminologia e delle aspirazioni delle teorie neoclassiche) che egli dice di voler «rappresentare in modo, che, lasciando in pace l’intelletto dei lettori, si presentino in tante immagini alla loro fantasia, dalle quali immagini desumano i sentimenti che sogliono essere ispirati dalla grazia ed ispirarla», si noti che effettivamente questa esigenza di poesia messaggera di alte verità è scrupolosamente mediata in quella di immagini e di sentimenti («la grazia si sente piú che non si distingue», Opere, XII, p. 320).

6 Seguo la numerazione del testo adottato nella Antologia foscoliana di L. Russo (Firenze 1938).

7 Perciò il sentimento di grazia in questo ultimo Foscolo non è un facile possesso, una conquista pacifica o l’effetto di una facile inclinazione istintiva, e non si potrebbe certo far valere contro questa condizione spirituale e poetica l’accusa di «anima bella» contrapposta ad «anima sublime» secondo la distinzione del saggio di Schiller su Grazia e dignità (1793).

8 «Le allegorie, benché sembrino cose ridicole ai critici metafisici, furono non pertanto agli artisti i materiali piú belli ed efficaci di lavoro; e il dispregio in che sono cadute fra noi, proviene dall’uso insensato che ne è stato fatto e dal cattivo gusto degli inventori moderni» (Dissertazione, Opere, XI, p. 416), e nell’abbozzo terzo di dedica si difendeva dall’accusa romantica e diceva «se chiedessi a loro un’altra mitologia, tanto da desumerne immagini e quadri, penerebbero ad additarmela» e si appoggiava all’esempio degli artisti «i quali ai loro allievi presentano sempre per modello i monumenti dell’antichità e i poeti che suggerirono quei lavori» (Opere, XII, p. 307).

9 «Quella mesta allusione (i cipressi)... non solamente ha in sé un proposito morale, ma fa ancora in poesia l’effetto di un chiaroscuro» (Opere, XII, p. 421).

10 Ragion poetica delle Grazie, Opere, XII, p. 318.

11 Ragion poetica delle Grazie, ivi.

12 Ad Omero si aggiunge il prediletto Catullo con i versi dell’Epitalamio di Peleo e Teti in cui si descrivono le ninfe che accorrono stupite intorno alla nave Argo. «Emersere freti candenti e gurgite vultus / aequoreae monstrum Nereides admirantes. / Illa atque haud alia viderunt luce marinas / mortales oculi nudato corpore Nymphas / nutricum tenus extantes e gurgite cano». Ma quale diverso movimento e quale forza concorde del ritmo e delle parole già cariche di movimento musicale e di evidenza mobile: visione mobile e musicale era uno dei punti a cui il Foscolo mirava da tempo e che qui singolarmente realizza con una forza piú intima e lieve. Eppure si può vedere come questa forza lieve ed agile sa ancor farsi piú intensa come un respiro in altre scene di armonia e di visione mobile e di danza.

13 Si osservi che nel passaggio da una prima ad una nuova redazione del brano si possono trovare correzioni fatte nella direzione di un gusto il meno possibile prezioso o generico: «onda raggiante» per «onda beata», «amorose Nereidi» per «amabili», «ingenue Grazie» per «rosee» e piú sotto, al v. 91, «le perle e il fiore messaggio d’Aprile» e poi «le perle e il primo fior nunzio d’aprile» invece di «il bel fioretto messagger d’aprile». Il Foscolo dové sentire il pericolo – non sempre pienamente ovviato – che il tono dell’armonia e della grazia potesse decadere in particolari aggraziati o in forme di beatitudine generica e poco sorvegliata.

14 Questo brano si può portare come esempio altissimo della piú “arcana” e limpida poesia foscoliana nella sua purissima e romantica aspirazione ad un regno di misteriosa, originaria spiritualità, che pure viene espresso cosí segreto e profondo in immagini musicali coerenti e limpide: «Inaccessa agli Dei splende una fiamma / solitaria nell’ultimo dei Cieli, / per proprio foco eterna; unico Nume / la veneranda deità di Vesta / vi s’appressa e deriva indi una pura / luce che mista allo splendor del sole, / tinge gli aerei campi di zaffiro, / e i mari, allor che ondeggiano al tranquillo / spirto del vento facili a’ nocchieri, / e di chiaror dolcissimo consola / con quel lume le notti, e a quel piú s’apre / modesto fiore a decorar la terra / molli tinte comparte, invidiate / dalla rosa superba...» (II, vv. 225-238).

15 «Onde qualvolta per desio di stragi / si fan guerra i mortali, e alla divina / libertà danno impuri ostie di sangue; / o danno a prezzo anima e brandi all’ire / di tiranni stranieri, o a fera impresa / seguon avido re che ad innocenti / popoli appresta ceppi e lutto a’ suoi; / allor concede le Gorgoni a Marte / Pallade, e sola tien l’asta paterna / con che i regi precorre alla difesa / delle leggi e dell’are, e per cui splende / a’ magnanimi eroi sacro il trionfo. / Poi nell’isola sua fugge Minerva, / e tutte dee minori, a cui diè Giove / d’esserle care alunne, a ogni gentile / studio ammaestra; e quivi casti i balli, / quivi son puri i canti, e senza brina / i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno / sempre, e stellate e limpide le notti».

16 «Mesci odorosa Dea, rosee le fila / e nel mezzo del velo ardita balli, / canti fra ’l coro delle sue speranze / giovinezza: percote a spessi tocchi / antico un plettro il tempo; e la danzante / discende un clivo onde nessun risale. / Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori / a fiorir sue ghirlande; e quando il biondo / crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome / vivran que’ fiori, o Giovinezza e intorno / l’urna funerea spireranno odore».

17 Venere nel suo commiato dirà alle Grazie che esse devono allietare le «nate a delirar menti mortali», «piú deste all’arti e men tremanti al grido che le promette a morte».

18 Si ripensa all’inizio dell’ode pariniana Alla Musa che in una spiritualità limitata e bonaria sembra anticipare questa rassegna di sentimenti ingentiliti contro le passioni brutali che la Musa pariniana non ama.

19 Si noti come nelle Grazie gli effetti piú minuti di una lentezza trasognata, di un errare fantastico siano affidati ad incontri abilissimi di «l» ed «r» e di nessi consonantici di labiali ed «l»: «flebile e lenta all’aure s’aggira», «obliò il suo vedovo coro», «e plora col rosiguol...»

20 «Mesci cerulee, Dea, mesci le fila / e pinta il lembo estremo abbia una donna / che con l’ombre e i silenzi unica veglia; / nutre una lampa su la culla, e teme / non i vagiti del suo primo infante / sian presagi di morte; e in quell’errore / non manda a tutto il cielo altro che pianti. / Beata! ancor non sa quanto agli infanti / provido è il sonno eterno, e que’ vagiti / presagi son di dolorosa vita».